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I FIUMI DI PORPORA
(LES RIVIERES POURPRES)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 25 novembre 2000
 
di Mathieu Kassovitz, con Jean Reno, Vincent Cassel, Nadia Farès, Dominique Sanda (Francia, 2000)
 
Eccolo, un film che fa per voi. Se adorate il thriller e non vi disturba qualche truculenza di troppo, ma di quelle che ormai ci fanno il callo già dall'asilo; se siete fra coloro che non vogliono complicarsi troppo la vita, ma gradite pur sempre qualcosa che vi sorprenda più del telefilm delle venti e trenta. E se, soprattutto, abitate dalle nostre parti: perché, allora, avrete una ragione in più per seguire Mathieu Kassovitz ed il suo tortuoso poliziesco I FIUMI DI PORPORA. Addentrandovi nel labirinto di uno spazio del tutto simile a quello che ci sta attorno, una di quelle valli alpine che si aprono alle nostre porte. Lasciandovi conquistare, un poco anche angustiare da quelle atmosfere d'incombente severità: con il fiume che confonde vortici e schiuma tra i massi, il sole che d'inverno stenta a farsi strada fino in basso, l'umidità che si appiccica al grigio delle pietre, delle case e della gente. Ma, sopra la linea luminosa che spacca in due la montagna a mezza costa, la gloria di una trasparenza dorata che taglia dalle cime di traverso, l'esplosione della luce che annuncia l'assoluto abbagliante delle nevi e dei ghiacciai.

Autore aggressivo e brillante, Kassovitz si era imposto con il suo secondo film, tanto rabbioso da intitolarsi LA HAINE. Inserito nella realtà sociale delle periferie urbane, preciso e vivace nel tono: che nasceva dal virtuosismo tecnico, dalla naturalezza e dalla complicità con gli attori, dalla forza trainante dei dialoghi. Ma dal saper volgere tutta questa energia naturalistica in un'osservazione distaccata, quasi astratta su quel microcosmo. Dopo lo scacco commerciale del suo terzo ASSASSIN(S), Il giovane-attore regista ritorna con qualcosa di diverso e di simile al tempo stesso.

Diverso, perché le vicissitudini commerciali lo hanno costretto ad assumere sembianze più consuete: tratto da un best-seller della letteratura gialla di Jean-Christophe Grangé, I FIUMI DI PORPORA ricalca infatti gran parte degli schemi di straordinario successo di IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI, di SEVEN e persino, in un finale che non è certamente la cosa più originale del film dei James Bond: tanto da arrischiare di diventare uno di quei compitini laboriosi nei quali si lanciano i cineasti europei quando vogliono dimostrare di essere altrettanto bravi degli americani. Serial - killer, dunque, e cadaveri, mutilazioni, profanazioni, croci uncinate, nazi-skin e karaté: tutto l'armamentario che potrebbe far temere il peggio. Ma pure, connotazioni di genere che allargano il cuore, assieme al respiro del film: la coppia tradizionale del poliziotto giovane ed irruente che si accompagna ammirato al veterano burbero e smaliziato (ottimi Vincent Cassel e Jean Reno). O il coro dei poliziotti locali più o meno imbranati: un po' da serial televisivo sulla Francia profonda, ma perfetto per introdurre un tono bonario, che dissacri il rituale un po' prevedibile e discretamente confuso portato innanzi dalla sceneggiatura.

Le similitudini, a questo punto. Sono quelle che testimoniano della qualità di uno sguardo che sarebbe sciocco ignorare: sarà pure di consumo, questo I FIUMI DI PORPORA che infatti sta trionfando ai botteghini francesi. Sarà meno impegnato, di quando Kassovitz e non solo lui speravano di cambiare il mondo. Ma è la dimostrazione di una bella continuità: di quella forza - tipica del cinema più genuino - che riesce a far lievitare ogni faccenda, assimilandola ad uno sfondo. Che si fa cosi determinante da diventare il vero protagonista dei significati e dei rinvii poetici; che perde il proprio ruolo banalmente decorativo per imprimersi nelle memoria meglio di qualsiasi discorso. Ed ecco allora una massiccia, incredibile università che sorge tra le montagne: solenne e cupa come quegli studi di eugenetica che travalicheranno ovviamente dai confini della facoltà per le esigenze del thriller. Ecco splendidi, i silenzi glauchi di un'immensa biblioteca, che in un ambiente del genere sorprende come una cattedrale gotica fra le vette; e che la cinepresa indaga con una fluidità misteriosa. Ecco, colti dal bravissimo Thierry Arbogast in quegli spazi devianti, gli scienziati ambigui che si occupano di degenerazioni oftalmiche tipiche di certe valli alpine (altro riferimento alla realtà della nostra Leventina...). E da quei meandri di una fanta-genetica ovviamente kitsch, dai chiaroscuri dei conventi percorsi con i passi felpati del suspense, la cinepresa distendersi magnificamente fra i ghiacciai che sovrastano dalla loro dimensione eterna: e penetrare ancora nei crepacci, scrutare fra quelle trasparenze nelle quali si specchiano, livide, le miserie del fondovalle.


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